in questa foto: il corridore Tarahumara Arnolfo Quimare a fianco dell'ultramaratoneta statunitense Scott Jurek
Il libro "Nati per correre" ha fatto scoprire al mondo (e anche a me) questa piccola tribù messicana Raramuri o Tarahumara che corre distanze per noi considerate incredibili e ha reso famose le ultramaratone, gare di corse ai limiti della resistenza umana.
Cresciuta in una famiglia dove si apprezzavano maratone, triathlon, la 24h di Pinzolo, non è strano per me, sentir parlare di imprese sportive oltre i limiti umani...
Ma questa tribù di piccoli indios messicani, con sandali minimali e sorriso sulle labbra, batte con facilità giovani, allenatissimi, super proteici atleti americani stravolti dalla fatica. I Tarahumara corrono tutti, uomini, donne, bambini, corrono su distanze lunghissime, per cacciare, per piacere, corrono perché non c'è altro modo... per loro non è un fatto sportivo, ne' di prestazioni, ma un fatto naturale. E per quanto ne so... non si ammalano!
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Ma… lo stesso non si può dire per la controparte occidentale, c’è un lato della medaglia, nascosto e ignorato.
Si chiama OTS Overtraining Syndrome, Sindrome da sovrallenamento.
Una strana e misteriosa sindrome che colpisce gli ultramaratoneti, ma probabilmente in maniera meno evidente colpisce in qualche modo o per brevi periodi il 60% di tutti gli atleti di alto livello.
Gli americani, bravissimi nell’osservare e catalogare l’hanno già classificata come malattia e trovato un nome. In Italia, se ne parla ancora poco.
I sintomi della Sindrome da eccesso di allenamento
I sintomi sono preoccupanti, improvvisamente l'atleta non riesce più a "fare i tempi" che era solito fare, accusa sintomi di tipo neurologico, ormonale e immunitario.
- dolori misteriosi
- tachicardie a riposo (il cuore batte più veloce)
- debolezza alle gambe
- alterazioni della sensibilità (p.e. punture di spilli nelle gambe)
- stanchezza cronica
- perdita di appetito (o all'inizio fame costante)
- calo del desiderio sessuale
- insonnia
- allergie
- problemi respiratori
- problemi della digestione
Il 60% degli ultramaratoneti contrae una infezione polmonare entro due settimane dalla fine di una gara.
I rischi del fai da te...
Gli ultramaratoneti non sono quasi mai seguiti da uno staff professionista, agli albori, questo era uno sport amatoriale. (anche se ormai sono entrati gli sponsor, raramente coprono i costi di uno staff tecnico-medico qualificato come può essere quello di una federazione), ma gli atleti erano e alcuni ancora sono sostanzialmenti amatori, con un normale lavoro lunedì-venerdì in ufficio e programmi di allenamento fatti in casa.
Appena sospettano una diminuzione delle prestazioni, si sottopongono a carichi di lavoro crescenti, con lo scopo di portare l'organismo "oltre i limiti". Con la folle convinzione che è sempre possibile andare oltre.
Facilmente si instaura un circolo vizioso, un atleta tende a pensare che più si allena meglio va, quindi se le prestazioni sono deludenti è perché non si allena abbastanza e quindi i carichi di allenamento si incrementano ancora.
Va detto poi che gli atleti di sport di resistenza spesso hanno aspetti psicologici particolari come un'abnorme resistenza al dolore, una forte motivazione a superare i propri limiti e un'immagine di sé centrata sullo sport.
E poi, come tutti noi, sono immersi nel brodo di cultura contemporaneo che ci dice più o meno chiaramente che fermarsi è da deboli e che è sempre possibile fare di più!
Quando questi atleti si ritrovano improvvisamente incapaci di alzarsi dal letto la mattina e non ne capiscono il perché, si trovano ad affrontare una situazione psicologicamente devastante.
Mike Wolf, ultramaratoneta esperto, ha descritto così la sua esperienza alla Transvulcania (Canarie), gara in cui era favorito, in un articolo apparso sulla rivista online "outsideonline". (la traduzione è mia)
Per metà gara ero con i primi, finchè ho cominciato a rallentare, non erano crampi o mal di stomaco, non era che non potevo mangiare. Era come se il corpo ad un certo punto avesse chiuso bottega, come se mi stesse dicendo, non puoi correre così forte, non ti permetterò di andare avanti.

Ultramaratoneta
Mike ha finito la gara tredicesimo e iniziato un lungo e doloroso percorso per avere, dopo un anno, una diagnosi per la sua condizione. Non sono molti i medici, che hanno familiarità con questa sindrome.
Il corpo di Mike ha detto NO e lui è stato abbastanza fortunato da uscirne.
La sindrome da eccesso di allenamento arriva quando l'organismo non gode del "meritato" riposo. Si viene a stabilire un disequilibrio tra sistema simpatico e parasimpatico, la risposta adattativa dell'organismo allo stress non c'è più e si instaura un circolo vizioso, il sistema simpatico, quello che ci tiene in allerta e pronti a combattere (a correre in questo caso) è sempre ACCESO!
E le prime a soffrire sono le ghiandole surrenali, alla lunga si esauriscono e smettono di produrre adrenalina e cortisolo, i temutissimi (ma molto utili) ormoni dello stress.
Comincia allora la stanchezza cronica e tutti i sintomi correlati. E poiché il sistema nervoso è strettamente collegato a quello immunitario, comincia a diminuire la resistenza alle malattie, anche un semplice graffio tarda a guarire.
Il sistema parasimpatico, quello che regola digestione, sonno, sesso, recupero/guarigione e che regola i livelli di infiammazione dell’organismo non ha più l’occasione di funzionare.
L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che collega il sistema nervoso con quello ormonale e immunitario comincia ad essere disregolato.
Per chi conosce il linguaggio del sistema nervoso, cioè il sistema che governa tutti gli altri sistemi è facile collegare questi sintomi ad una disregolazione tra sistema simpatico e parasimpatico.
Lo ripeto, il sistema nervoso regola e governa tutti gli altri sistemi.
Se non sta bene lui, non stanno bene neanche gli altri.
Il nostro sistema è fatto sì per migliorare le prestazioni e rispondere a livelli di stress crescenti e carico di lavoro crescente, ma solo se a periodi di lavoro si alternano periodi di riposo.
Non siamo un po' tutti ultramaratoneti?
Ma in fondo la vita in una grande metropoli o in una grande azienda non è così diversa. Siamo un po' tutti ultramaratoneti del quotidiano. Non ci fermiamo mai, convinti che la nostra vita debba essere sempre al massimo.
Quello che salta all'occhio per chi fa il mio lavoro è una certa somiglianza con alcune condizioni che stanno diventando sempre più diffuse (come la fibromialgia o la sindrome da affaticamento cronico).
I sintomi della sindrome da sovrallenamento e quelli dello stress cronico sono simili.
Infatti le due condizioni hanno in comune alti livelli di cortisolo, l'ormone dello stress, utilissimo per la nostra sopravvivenza nelle giungle d'asfalto e nelle maratone lunedì-venerdì, deleterio se prodotto in continuazione e in eccesso.
Fermarsi è naturale, anzi è biologico.
Tutte le funzioni umane sono fatte a cicli, il battito cardiaco, la respirazione, la peristalsi intestinale, il sonno e la veglia, lo svuotamento della vescica, la contrazione muscolare, la trasmissione nervosa, il ciclo mestruale. E così via! Ogni funzione o apparato ha un momento di lavoro e uno di recupero, una sinfonia di ritmi interni regolata finemente dall'alternanza del sistema simpatico e parasimpatico (i due "lati" dello stesso sistema nervoso, uno si occupa delle questioni di sopravvivenza, mentre l'altro di mandare avanti le questioni più tranquille e piacevoli, digerire, dormire, riprodursi, etc.)
Ignorare questo semplice fatto significa negare la saggezza la corpo, stravolgere il sistema che l'evoluzione ha creato per noi.
La bellezza delle pause
Nella vita così come nello sport, le pause sono momenti preziosi per riorganizzarsi, elaborare le informazioni, assorbire i cambiamenti e ricaricare i meccanismi.
Alla parola "pausa", molti pensano ad abbandonarsi inerti in qualche posto comodo e questo evoca sentimenti di sensi di colpa, vergogna e debolezza. Ma la pausa è semplicemente un cambio di schema, se ne interrompe uno per entrare in un altro e poi tornare al precedente rinfrescati e con più energie. Se si sta troppo tempo alla scrivania, i pochi passi per arrivare alla macchina del caffè sono un pausa che rigenera gambe e lucidità di pensiero (prima della caffeina).
Più pause si fanno, meno lunghe servono e più in fretta siamo in grado di recuperare energia e ripartire.
Solo così l'asticella del limite si può spostare più in là,
le nostre prestazioni possono migliorare, possiamo fare più cose con meno sforzo, in maniera intelligente, conoscendo noi stessi e senza farci male.
Se l'atleta è un bambino o adolescente
Non sono esperta di atleti bambini o adolescenti ed è fin troppo banale dire di "andarci piano". Poco probabile che la sindrome da eccesso di allenamento riguardi loro, perché riguarda invece chi sottopone il proprio fisico a sforzi estremi e prolungati ma....
Frequento per lavoro i convegni e all'ultimo convegno di medicina del tennis di Roma ho sentito dei relatori portare idee molto interessanti e in linea con la mia visione (purtroppo ho perso la documentazione e non so dare riferimenti più precisi sui nomi dei relatori, mi spiace).
Se sei il genitore di un piccolo campione o campionessa, potresti trovare interessante questi spunti.
Prima cosa: niente sollevamento pesi prima dei 18. Inutile e dannoso. Lo studio riportato era su giovani tennisti che hanno riportato lassità legamentosa ai legamenti vertebrali di C1-C2, le prime vertebre cervicali, quelle sotto la testa. Cosa vuol dire? Che quel segmento di colonna rimarrà instabile per sempre, ed è molto vicino ai centri vitali che regolano cuore e respiro. Se fossi un genitore, decisamente non vorrei questo per mio figlio/a.
Seconda cosa: un allenamento intensivo dà risultati? I ricercatori avevano intervistato i primi nel ranking mondiale del tennis. Nessuno di loro era stato uno sgobbone da ragazzo... Quindi un allenamento particolarmente intensivo non era collegato con le vittorie in campo, interessante no...?
Terza cosa: il relatore era finlandese, e bisogna ammettere che sono sempre avanti quando si tratta di scuola o pedagogia. Per assicurare lo sviluppo delle necessarie competenze motorie, i ragazzi dovevano disporre di un tempo dedicato al "gioco libero" (non il loro sport, ma movimento spontaneo, correre, salire sugli alberi, qualsiasi cosa non strutturata) per un tempo almeno equivalente a quello dedicato all'allenamento sport-specifico. Esempio: 20 ore di tennis a settimana, poi "obbligatorie" 20 ore di gioco libero. E' questa è stata musica per le mie orecchie. Che significa? E' una sorta di conferma indiretta del fatto che le competenze motorie non si apprendono grazie a un sport strutturato, ma con il movimento libero e spontaneo legato al gioco, al tempo libero, insomma l'apprendimento migliore viene giocando, lontani da regole, risultati e paura di sbagliare.
Ti interessa approfondire il tema del sistema nervoso autonomo? Vai all’articolo correlato
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